Per la senatrice Valente la prassi degli allontanamenti dei figli dai padri a seguito di denunce per violenza non bastava più: le “allegazioni di violenza” cui fa riferimento il DDL 91 sono forse il trucco per instaurare un regime fondato sul ricorso sistematico alle querele strumentali?
Prendendo spunto da un articolo pubblicato su il Resto del Carlino del 16 luglio 2023, c’è un caso emblematico che induce a diverse riflessioni. Si tratta di uno dei tanti casi di assoluzione da false accuse, o meglio di assoluzioni da accuse che alla verifica giudiziaria si dimostrano infondate.
In archivio, ormai, ne abbiamo a metri cubi. La casistica è ampia, e va dalle false accuse per coprire un tradimento a quelle per non pagare un debito, da quelle per rovinare un ex partner a quelle per provare ad ottenere un risarcimento; e poi rabbia, gelosia, invidia e vendetta con mille diverse sfumature. Un filone particolarmente fertile è quello delle false accuse in concomitanza con separazioni e divorzi, con un triplice obiettivo: trattare da una posizione di forza rispetto all’accusato, eroderne le risorse emotive ed economiche, dipingerlo come pericoloso al fine di ostacolarlo nei rapporti con la prole.
Analizziamo proprio un caso relativo a questa ultima opzione. Le notizie apparse in cronaca sono incomplete, la vicenda è complessa e si snoda attraverso l’intreccio di percorsi civili e penali. Per avere un quadro esaustivo abbiamo provato a contattare i legali nominati nell’articolo del Carlino, il collegio difensivo paterno composto dagli avvocati Graziana Lombardi e Rita Ronchi.
I fatti – nel 2021, una coppia – lei italiana (Anna, nome di fantasia) e lui australiano (Mark, nome di fantasia) – vive e lavora a Dubai, ed ha un bimbo molto piccolo, meno di due anni. Anna non riesce ad occuparsi del neonato, ha attacchi di panico, si sente inadeguata, è ansiosa e chiede continuamente il supporto del marito, altrimenti sente che potrebbe fare un gesto sconsiderato. In piena pandemia vuole trasferirsi in Italia, a Bologna, per stare vicina alla propria famiglia d’origine ed essere aiutata anche dai nonni materni. Mark la accontenta, lascia il proprio lavoro presso la compagnia aerea Emirates e si trasferisce in Italia con moglie e figlio. Trova una casa da affittare, ma la moglie la preferirebbe più vicina ai propri genitori; per andare incontro alle richieste della moglie cerca e trova un’abitazione vicina ai suoceri, addirittura nello stesso palazzo.
La donna soffre di depressione post partum, disturbo che riconoscerà solo in seguito, ma intanto è irascibile, insofferente ed emotivamente instabile; del piccolo si occupa quasi esclusivamente il padre ma la convivenza forzata e i disturbi della madre mettono in crisi la coppia, che decide di separarsi.
E così arrivano i guai. Inizialmente, il piccolo resta col papà, per mantenere una oggettiva continuità con la consuetudine consolidata nei primi due anni di vita. Poi la madre ne rivendica il possesso, lo prende e lo porta con sé dai nonni materni. Da quel momento viene rifiutata qualsiasi condivisione dei compiti di cura: Anna decide che il figlio è di sua esclusiva proprietà e Mark deve sparire; ma siccome non si rassegna a sparire volontariamente, deve essere annientato usando la strategia tanto cara alle calunniatrici seriali: la madre punta ad escludere il padre dalla vita del figlio utilizzando le denunce strumentali.
Anna ne presenta a raffica nell’estate 2021, la stampa dice 35 ma gli avvocati precisano che le denunce vere e proprie sarebbero “solo” una ventina, alle quali si aggiungono istanze, opposizioni, ricorsi, etc. La colpa del padre? Non voler perdere i contatti col figlio che la ex moglie gli impedisce di vedere. Mark, non avendo risposte a messaggi e telefonate cerca, anche per un attimo, di incontrare il piccolo per poterlo almeno salutare. Da lì le denunce con la narrazione strumentale di terrore, pericolo, persecuzione, allarme, il timore per la propria incolumità, la necessità di protezione.
Il padre voleva salutare il bambino, non rapirlo o fargli del male; la realtà, per assurdo, è diametralmente opposta: la persona a rischio di compiere eventuali azioni violente nei confronti del bambino era proprio lei, la madre affetta da depressione post partum, vittima di scompensi ormonali e quindi incapace di controllare le proprie azioni, al punto da costituire un’attenuante in caso di maltrattamenti, percosse e persino infanticidio.
Come purtroppo testimonia anche l’ultima tragedia di Volterra, unitamente ad altre centinaia di casi precedenti con madri depresse che uccidono i figli.
Ma in Italia la mamma è sempre la mamma, la “maternal preference” impera sovrana e viene riconosciuta anche dalla Corte di Cassazione.
Il Codice Rosso miete un’altra vittima. Le denunce in seguito si riveleranno infondate, ma intanto ci sono, e sono tante. Conta la mole delle accuse, non la fondatezza. Quella potrà essere verificata solo in un secondo tempo, intanto da un allarme costruito a tavolino scaturiscono le misure cautelari: divieto di avvicinamento alla sedicente vittima. Ecco perché un genitore che vuole escludere l’altro gioca il jolly delle false accuse: il risultato minimo è garantito, e il diritto della madre ad essere protetta da ipotetiche persecuzioni prevale rispetto al diritto della prole a conservare un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori. Anche se il diritto della prole è reale e quello della madre è inventato.
Poco importa che sia inventato a causa di una manovra ostile pianificata o di disturbi comportamentali di vario tipo, resta il fatto che è inventato. La manovra ostile del genitore malevolo produce l’effetto immediato di deteriorare la relazione padre-figlio. Quanto questo possa essere pregiudizievole per il bambino non se lo chiede nessuno, l’importante è proteggere la madre dal presunto pericolo rappresentato nelle narrazioni di violenza, anche se poi tale presunto pericolo si rivela inesistente: i numerosi procedimenti vengono unificati, e al processo Mark viene assolto con formula piena: “il fatto non sussiste”.
Non ci sono mai stati atti persecutori, lo stalking esiste solo nella narrazione della sedicente vittima. Intanto però la vita di Mark è distrutta sotto l’aspetto sociale, emotivo ed economico, ma soprattutto è compromesso il legame col figlio che non ha visto per due anni. L’avvocato Ronchi riferisce che Mark ora può incontrare il bambino solo sei ore a settimana, mentre prima era la figura genitoriale di riferimento e se ne occupava 12 ore al giorno.
Perché? Perché la madre, che non si è occupata del bambino in quanto non era in grado di farlo, poi ha strappato il figlio al padre tentando di spedirlo in galera con false accuse. E poco importa che il padre abbia dimostrato – fatti, non opinioni – di sapersi occupare del figlio fin dalla più tenera età: egli ha comunque subito le invenzioni della ex moglie esitate in un lungo processo finalizzato ad annientarlo, e adesso viene limitato negli incontri col figlio.
La sanatoria. “Ormai è così”, è questa in sostanza la tesi del tribunale civile. Sarà anche vero che Anna ha costruito un processo sul nulla, che ha dei disturbi riscontrati dal consulente tecnico nominato dal Tribunale, che ha arbitrariamente ostacolato la relazione padre-figlio opponendosi con ogni mezzo lecito ed illecito … ma ormai il bambino lo ha lei e con il padre non ha più la relazione significativa di un tempo. Capito?
Il meta-messaggio che si ricava da questo atteggiamento dei tribunali è gravissimo, poiché è un tacito invito a reiterare dinamiche ostative, anche violando tutto il violabile sotto il profilo civile e penale. L’importante è deteriorare la relazione padre-figlio, alla fine sarà il riconoscimento che il rapporto è deteriorato a legittimare la permanenza della prole presso chi ha appositamente causato il deterioramento.
È una dinamica frequente nelle sottrazioni internazionali (altro “campo di battaglia” dell’avvocato Ronchi), anche in tali casi compaiono le immancabili denunce per maltrattamenti e/o stalking per avvalorare la strategia “non scappo perché voglio ma scappo perché devo”. Il genitore che fugge all’estero con i figli sostiene di doverlo fare per proteggersi dal partner violento, anche se poi i tribunali al termine della fase istruttoria assolvono l’imputato appurando che violento non era affatto. Poi, però, è lo stesso protrarsi della sottrazione che rende sconsigliabile il rientro dei minori nel contesto dal quale sono stati sottratti, quindi “ormai è così” rappresenta una sanatoria, una sorta di condono che – nei fatti – legittima l’appropriazione indebita di un figlio.
Il ruolo controverso dei Centri Anti Violenza. C’è un particolare di grande importanza, in tutta la vicenda: Anna si era rivolta ad un C.A.V. (centro anti violenza per sole donne), la “Casa delle Donne”, ed ottiene la solita relazione che non vuol dire niente e vuol dire tutto; non vuol dire niente poiché non aggiunge una virgola alla vicenda: è una relazione, riferisce l’avv. Lombardi, che ripete pedissequamente la narrazione della sedicente vittima. Una relazione, quindi, basata esclusivamente su quanto Anna racconta (de relato), senza alcuna osservazione diretta delle dinamiche familiari ne’ tantomeno delle asserite violenze; vuol dire tutto poiché, essendo depositata agli atti, entra a pieno titolo nel fascicolo di causa ed avvalora la tesi della sedicente vittima. Eppure, tale relazione ha una struttura del tutto simile alla seguente:
– Lei: “sono agitata per colpa di lui, mi sento in pericolo, ho paura che mi faccia del male”
– C.A.V.: “la signora è agitata per colpa del marito, si sente in pericolo, ha paura che le faccia del male”.
La donna ha ragione a prescindere, l’uomo è colpevole perché lei dice che lo sia. Senza aver mai visto l’uomo, ne’ tantomeno ascoltato la sua versione. Però, grazie al passaggio nel C.A.V., la narrazione della sedicente vittima acquisisce credibilità in quanto lo status di vittima è certificato dalle operatrici, psicologhe e non solo, della Casa delle Donne (o di qualsiasi altro CAV, tanto è uguale). Sembra quasi che, in una condotta simile, sussista da parte dei C.A.V. una sorta di accanimento anti-maschile, più che la reale volontà di proteggere la vittima femminile.
No CAV maschili. Per le vittime maschili, invece, non esiste una rete di C.A.V. finanziata con fondi pubblici, come invece accade per le vittime femminili. Non esistono centri di ascolto, non esistono residenze protette, non esistono campagne di informazione e sensibilizzazione, non esiste un impegno istituzionale in tal senso, non è stato stanziato un solo euro per formare anche un solo operatore di genere maschile che risponda alle richieste d’aiuto di uomini vittime di violenza: gli uomini, per definizione, non possono subire alcuna forma di violenza domestica, e se la subiscono devono arrangiarsi da soli poiché non è prevista alcuna risposta istituzionale
Il problema è stato confermato lo scorso anno, quando nell’arco di breve tempo due ragazzi omosessuali chiamarono il 1522 per due diverse forme di violenza subita: il primo era vittima di violenza sessuale da parte di un ex partner, il secondo era vittima di un pestaggio da parte di un gruppo omofobo. Ad entrambi venne risposto picche: “non sappiamo come aiutarvi, il servizio è strutturato esclusivamente per vittime femminili”.
Oltre alla evidente discriminazione sessista di fondo, c’è un aspetto pratico rilevato nel caso di specie: Mark più volte ha provato a rivolgersi a polizia e carabinieri per denunciare le vessazioni della ex moglie, ma la sua scarsa padronanza della lingua italiana ha fatto si che non riuscisse a far verbalizzare quanto avrebbe voluto. Per le vittime femminili questo gap linguistico è stato prontamente aggirato: la presenza massiccia di donne straniere presunte vittime di violenza ha fatto si che nei C.A.V. vi siano operatrici in grado di assistere non solo donne anglofone e francofone, ma anche di lingua tedesca, portoghese, araba e cinese.
Il DDL 91. La vicenda giudiziaria di Mark e Anna è destinata ad avere migliaia di repliche, cioè il teatrino che in ogni procedimento giudiziale per l’affido dei figli viene allestito davanti al giudice per provare a convincerlo che il padre è violento e quindi inadeguato, e i figli devono stare il più possibile solo con la mamma. La politica dovrebbe riflettere sull’utilizzo strumentale delle false accuse e, se possibile, studiare un deterrente efficace per disincentivare il fenomeno. Invece, prova addirittura ad incentivarlo, replicando all’infinito la dinamica “lei denuncia, lui non vede più i figli”. Questo è in sostanza quanto sta proponendo da anni la Senatrice Valeria Valente, prima firmataria del DDL 91 presentato nell’attuale Legislatura e identico a quanto già proposto, sempre dalla Valente, nel 2021 quando non era all’opposizione (DDL 2417).
L’unico articolo, ora come allora, dice testualmente: “Nei casi di allegazioni di violenza, il giudice, anche d’ufficio, dispone l’immediata sospensione del diritto di visita del genitore violento e, previo e immediato coordinamento con le altre autorità giudiziarie anche inquirenti, assume misure di protezione e dispone l’affidamento temporaneo del minore all’altro genitore”. La parola magica, in questo vergognoso tentativo di legalizzare l’aggiramento dell’affido condiviso e di tornare all’affido esclusivo alle madri, è il termine “allegazioni di violenza”: non prove fumanti, né testimonianze degne di nota da parte delle forze di polizia, né tantomeno l’arresto in flagranza, ma solo racconti calunniosi che, nel 95-97% dei casi, si rivelano assolutamente strumentali e privi di qualunque fondamento.
Per la senatrice Valente, la prassi attuale degli allontanamenti cautelativi dai figli a seguito di denunce per violenza probabilmente non bastava più: tutto deve essere sancito come se fosse un vero e proprio obbligo di legge per il giudice civile; e non serve nemmeno più la denuncia: le “allegazioni di violenza” sono più che sufficienti, e diventano il Cavallo di Troia per entrare nella fortezza ormai indebolita della Bigenitorialità, distruggere ciò che ne rimane dopo 17 anni di costante boicottaggio da parte dei tribunali ed instaurare un regime di eccezione permanente all’art. 337-ter, fondato sul ricorso sistematico a denunce strumentali.